La nouvelle vague

Didario

La nouvelle vague

Archiviato il dopoguerra, mentre la società si fa sempre più complessa, emergono le necessità dei nuovi protagonisti della cultura: i giovani, gli operai, le donne. Sono i prodromi dei movimenti di protesta del 1968, di cui il cinema si farà portavoce mettendo in discussione la cinematografia tradizionale, ormai troppo lontana dalla realtà.

In particolare in Francia, negli anni ’60, si assiste alla nascita di un nuovo movimento cinematografico che verrà definito “nouvelle vague” dai giornalisti. Stanchi del vecchio cinema francese, caratterizzato da un forte distacco dai problemi quotidiani, giovani cineasti come François Truffaut e Jean-Luc Godard si mettono al lavoro per mostrare alle nuove generazioni un modo di fare cinema più fedele alla realtà della vita nelle strade delle città.

È un movimento cinematografico di rottura che mira a schernire il passato nelle sue forme autoritarie, mostrando una sincerità mai vista prima d’ora: la giovane età dei registi, la stessa dei ragazzi della Francia dell’epoca, crea un immediato legame col pubblico a cui si rivolgono; anche se girati con poche risorse, i loro film aprono le pagine del diario intimo di una nuova generazione che ribolle sotto la sua apparente disinvoltura e può finalmente vedere se stessa sullo schermo.

La nouvelle vague vive di scelte poetiche e stilistiche figlie in parte del neorealismo italiano: le sceneggiature sono aperte, pronte a essere contaminate dall’improvvisazione, le riprese vengono fatte all’aperto o in interni non ricostruiti. Rispetto a Hollywood, è un cinema nuovo, fresco, diretto, spontaneo e immediato, che rimette in discussione i canoni del linguaggio tradizionale. Mentre i film statunitensi nascondono il mezzo cinematografico, i registi francesi cercano di rivelarne la presenza attraverso la rottura delle regole. Così in “Fino all’ultimo respiro” Jean-Paul Belmondo parla direttamente alla telecamera durante il suo monologo.

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